La questione
Con atto di citazione ritualmente notificato veniva proposta opposizione al decreto ingiuntivo con il quale, in data 10 luglio 2012, il Tribunale di Verona aveva ingiunto al cliente di un avvocato di pagare a questo la somma di euro 8.779,34 a titolo di compenso per due distinte attività che lo stesso aveva assunto di aver svolto.
Il professionista aveva in particolare redatto su richiesta del proprio cliente un contratto di mandato avente ad oggetto l’attribuzione al medesimo dell’incarico di vendere un complesso immobiliare del valore di euro 17.000.000,00 ed aveva agito in giudizio per recuperare dei crediti vantati dal cliente proponendo ricorso per decreto ingiuntivo. L’opponente allegava, a sostegno della propria domanda, l’intervenuta prescrizione del credito di controparte, ai sensi dell’art. 2956 c.c., e che comunque le attività professionali dell’opposto non erano state per lui di alcuna utilità, in quanto il contratto redatto dall’avvocato non andava in realtà qualificato nella sostanza come mandato a vendere, bensì come incarico di mediazione avente ad oggetto il bene sopra citato, e, non essendo iscritto all’albo dei mediatori, era un contratto da considerarsi nullo, ed inoltre il ricorso proposto dal detto difensore su sua richiesta non era fondato su alcuna prova scritta del credito allegato, cosicché era stato respinto dal Tribunale e si era tradotto in un inutile dispendio di risorse da parte dell’attore.
L’avvocato si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo contestato.
Con sentenza emessa il 16 aprile 2015, il Tribunale accoglieva l’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo e condannava il convenuto opposto a rifondere all’attore opponente le spese del giudizio.
Osservava in proposito il giudice di prime cure che:
1) l’eccezione di prescrizione dell’attore andava respinta, trattandosi di prescrizione presuntiva del credito che non operava nel momento in cui il preteso debitore avesse contestato l’ammontare del credito e sostenuto di essere debitore di una somma minore rispetto a quella allegata in giudizio;
2) la prestazione svolta dall’avvocato non era stata effettivamente quella di stipulare un contratto di mandato a vendere un bene in nome e per conto dell’attore, bensì una semplice attività di mediazione, che non aveva sortito il risultato sperato;
3) che, pur essendo l’obbligazione assunta dal professionista un’obbligazione di mezzi e non di risultato, egli non aveva tenuto la diligenza dovuta nell’espletamento della prestazione e, soprattutto, aveva assunto un’obbligazione che, per come stipulata tra le parti, non era nemmeno astrattamente idonea a garantire al creditore una qualsivoglia utilità;
4) altrettanto andava ritenuto per il ricorso monitorio che era stato respinto, né assumeva rilievo rispetto a questa attività che il cliente avesse insistito per la sua proposizione, nonostante fosse stato avvisato dal legale delle scarse possibilità di successo dell’iniziativa (circostanza che non era stata provata), tenuto conto che spettava comunque al difensore in base alla diligenza su di lui incombente scegliere la linea difensiva più idonea da adottare;
5) che le spese di lite andavano regolamentate in base ai valori tabellari medi, ridotti del 30% dal momento che nella fase decisionale le parti avevano semplicemente ripreso le argomentazioni già svolte in precedenza.
L’avvocato impugnava tempestivamente la sentenza innanzi alla Corte d’Appello di Venezia, contestava la fondatezza dei motivi dell’impugnazione e ne chiedeva il rigetto, con la conferma della sentenza di primo grado.
La soluzione ed i precedenti
Con sentenza del 2 marzo 2018 la Corte di Appello Venezia, est. Dott. Bellano, ha accolto l’impugnazione, seppure non interamente.
Ha ritenuto la corte che la responsabilità professionale dell'avvocato configura un'obbligazione di mezzi e non di risultato e quindi presuppone l’osservanza del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c., da commisurare alla natura dell'attività esercitata. Ne discende che l'eccezione d'inadempimento, ai sensi dell'art. 1460 c.c., può essere opposta dal cliente all'avvocato che abbia violato l'obbligo di diligenza professionale, purché la negligenza sia idonea a incidere sugli interessi del cliente ove non sia pregiudicata la "chance" di vittoria in giudizio (cfr. Cass. civ. sez. II, 05/07/2012, n. 11304).
Ciò premesso, primo motivo di appello era che il primo giudice gli avesse imputato l’inadempimento agli obblighi di diligenza per avere redatto su richiesta del cliente un mandato a vendere finalizzato a fargli conseguire un compenso, condizionato al buon fine della compravendita, senza tuttavia individuare altra figura negoziale, alternativa a quella da lui predisposta, che permettesse al cliente di ottenere il risultato sperato, ovvero la provvigione del 2% in caso di vendita del compendio immobiliare. Sarebbe errato, quindi, avere incolpato il professionista di scarsa diligenza o inadempimento per avere proposto al cliente un accordo che nel caso concreto non presentava alternative migliori. Non sarebbe vero, inoltre, che il contratto in questione, configurando un dissimulato accordo di mediazione, fosse connotato da un vizio di nullità assoluta ed inidoneo a produrre effetti giuridici, giacché recenti orientamenti e pronunce giurisprudenziali avrebbero messo in discussione la legittimità dell’art. 6, L. n. 39/1989. Il primo giudice, quindi, avrebbe omesso di indicare la qualificazione giuridica dell’opera che si poteva pretendere da esso appellante quale diligenza media professionale richiesta dall’art. 1176 c.c. e per una responsabilità che per l’avvocato configura un’obbligazione di mezzi. D’altra parte non ha negato di avere chiesto la redazione contrattuale ad esso appellante, né ha dedotto di avere saputo, o di non essere stato informato dal legale, che non essendo iscritto nel ruolo dei mediatori rischiava di vedersi contestato il diritto al pagamento della provvigione.
In ogni caso, anche ritenendo che il professionista avrebbe dovuto astenersi dal proporre e redigere quella scrittura, in tal caso gli sarebbe spettato ugualmente un compenso per il parere giuridico rilasciato.
La corte ha ritenuto la doglianza meritevole di accoglimento.
Sebbene il contratto abbia ad oggetto non un mandato a vendere, bensì un incarico di mediazione per il reperimento di un acquirente di un determinato immobile di proprietà di s.r.l., è indubbio che l’opera intellettuale sia stata prestata dal professionista. Si è trattato inoltre di mediazione negoziale c.d. atipica, che nel nostro ordinamento è configurabile accanto alla mediazione ordinaria, fondata su un contratto a prestazioni corrispettive, con riguardo anche ad una soltanto delle parti interessate (c.d. mediazione unilaterale), ipotesi che ricorre nel caso in cui una parte, volendo concludere un affare, incarichi altri di svolgere un'attività intesa alla ricerca di un persona interessata alla conclusione del medesimo affare a determinate, prestabilite condizioni. Essa rientra nell'ambito di applicabilità della disposizione prevista dall'art. 2, comma quarto, L. n. 39 del 1989, che, per l'appunto, disciplina anche ipotesi atipiche di mediazione, stante la rilevanza, nell'atipicità, che assume il connotato della mediazione, alla quale si accompagna l'attività ulteriore in vista della conclusione dell'affare. Anche per l'esercizio di questa attività, quindi, è richiesta l'iscrizione nell'albo degli agenti di affari in mediazione di cui al menzionato art. 2, L. n. 39 del 1989, ragion per cui il suo svolgimento in difetto di tale condizione esclude, ai sensi dell'art. 6 della stessa legge, il diritto alla provvigione. Dalla mancata iscrizione non deriva, però, la nullità di tale contratto, perché la violazione di una norma imperativa, ancorché sanzionata penalmente, non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto, comportando quella violazione solo la non insorgenza del diritto alla provvigione ed eventualmente l'applicazione di una sanzione amministrativa (cfr. Cass. civ. sez. III, 14/07/2011, n. 15473). Non può escludersi pertanto che, pur in mancanza dell’iscrizione ed in caso di positivo svolgimento della prestazione demandatagli, cioè con l’utile reperimento di un acquirente dell’immobile, potesse ugualmente ottenere dalla mandante il pagamento della provvigione, ove effettuato spontaneamente e non a seguito di imposizione. Orbene, considerato che è indiscussa la corrispondenza dell’opera svolta dal professionista all’incarico conferitogli dal cliente e l’utilità, almeno astratta, della prestazione, contrariamente a quanto opinato dal primo giudice, va riconosciuto allo stesso il diritto al compenso per l’attività prestata, il cui importo non è stato contestato nell’ammontare richiesto.
Analoga decisione non può essere adottata invece per la proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo, giacché è pacifico che detta istanza, seppure presentata su richiesta del cliente, in difetto di idonea prova scritta del credito non avesse alcuna possibilità di essere accolta. In tal caso deve ritenersi totalmente carente nel difensore la diligenza richiesta dall’art. 1176, comma 2, c.c., che nella specie imponeva al legale, prima di promuovere l’azione monitoria, di verificare la sussistenza dei presupposti di ammissibilità fissati dall’art. 633 c.c.
In ordine a questa attività, dunque, appare fondata l’eccezione di inadempimento sollevata dal cliente a norma dell’art. 1460 c.c., sicché deve escludersi il diritto al relativo compenso in capo all’appellante e la pronuncia impugnata per questo aspetto va confermata, come pure la revoca del decreto ingiuntivo.
Ne deriva che, in parziale riforma della sentenza di primo grado e detratto l’acconto di euro 1.000,00 già versato da , quest’ultimo deve essere condannato al pagamento in favore dell’avv. della minor somma di euro 6.463,02, oltre accessori legge, con gli interessi legali dalla data di costituzione in mora (13 ottobre 2011) al saldo.
In considerazione dell’esito del giudizio ed essendo configurabile una soccombenza parzialmente reciproca delle parti, le spese di lite per entrambi i gradi vanno compensate tra le parti per 1/3, mentre per i residui 2/3 vanno poste a carico dell’appellato.